La delegazione diocesana che si è recata in Terra Santa dal 22 al 27 luglio ha raccolto in un documento alcune osservazioni e riflessioni frutto dell’ascolto delle diverse realtà incontrate che pubblichiamo di seguito.
Grazie alla solidarietà di tanti veronesi e al supporto di Caritas diocesana la delegazione ha potuto consegnare alle diverse realtà incontrate la somma raccolta pari a 40.000 euro. Il grazie sincero del vescovo Domenico e della delegazione diocesana va all’intera comunità cristiana: a chi ha potuto donare e a chi ha accompagnato con la preghiera e la vicinanza questa iniziativa rivolta ai fratelli della Chiesa madre di Gerusalemme.
L’invito è a continuare a pregare per la Pace nel mondo.
Terra Santa: pellegrinaggio di ascolto, solidarietà e vicinanza
Note conclusive
A distanza di due settimane del nostro rientro dalla Terra Santa si assiste ad una nuova escalation della tensione che coinvolge tutti, non solo gli attori regionali ma anche noi occidentali, interpellati a non distogliere lo sguardo e il cuore verso i più sofferenti e indifesi che subiscono le conseguenze di scelte dettate da logiche politiche, economiche, religiose e ideologiche…
Ci sembra importante condividere alcuni punti emersi a più riprese nei vari incontri che hanno scandito le nostre giornate trascorse dal 22 al 27 luglio tra Gerusalemme e Betlemme.
Assieme alle voci istituzionali della Chiesa locale, quali il Patriarcato Latino e la Custodia francescana di Terra Santa, abbiamo avuto la possibilità di incontrare e ascoltare operatori internazionali, nostri connazionali che a vario titolo si adoperano per costruire una società più umana e giusta. Come Andrea De Domenico, capo coordinamento degli Affari umanitari delle Nazioni Unite (Ocha) per i Territori palestinesi, e Carla Benelli dell’Associazione pro Terra Sancta che da venticinque anni costruisce progetti di valorizzazione e conservazione del patrimonio archeologico e artistico coinvolgendo le comunità locali palestinesi.
E poi le persone che lavorano direttamente a contatto con la popolazione, soprattutto con i più fragili e invisibili della società, come le Suore Comboniane che seguono le comunità beduine e quelle di immigrati asiatici, la Kehilla di Gerusalemme dei cattolici di lingua ebraica, l’ospedale pediatrico ‘Baby Caritas Hospital’ e il Centro medico ‘Al Saqada’ di Betlemme. Abbiamo ascoltato voci familiari come quella di Daoud Nassar della ‘Tent of Nations’ e voci nuove come quelle degli abitanti di ‘Wahat al-Salam – Neve Shalom’, che coltivano entrambe la stessa speranza e la stessa resilienza davanti alla violenza e alla spaccatura crescente nella società, credendo che l’unica via possibile sia l’educazione alla pace e alla fratellanza.
Incontri intensi, che hanno lasciato ampio spazio all’ascolto. Un ascolto denso e necessario per comprendere la complessità della situazione e i differenti punti di vista. Ma abbiamo anche colto il bisogno dei nostri interlocutori di essere ascoltati, di consegnare i vissuti e condividere lo smarrimento, l’impotenza e la fatica di attraversare questo tempo tenebroso.
Ci sembra dunque utile sintetizzare alcune riflessioni scaturite da questi significativi dialoghi lasciando ad un futuro incontro aperto a tutti una narrazione più approfondita dell’esperienza che abbiamo vissuto.
Punto primo: IL DOLORE MIO E IL DOLORE DELL’ALTRO
«La gente è talmente piena del suo dolore che non ha spazio per il dolore dell’altro. Quindi il proprio dolore è l’unico. Non c’è spazio per accettare di poter essere empatici anche con il dolore dell’altro. O il mio dolore, o il suo». Sono le parole del Patriarca, il Card. Pierbattista Pizzaballa. Il 7 ottobre e il conseguente conflitto a Gaza hanno generato una violenza disumanizzante che ha colpito entrambe le parti. Un dolore talmente deflagrante che ha generato una frattura difficilmente sanabile principalmente tra israeliani e palestinesi, frattura che si è insinuata in ogni frangente della società, tra le stesse comunità religiose e ad ogni livello di rapporto sociale. «La cosa più triste e dolorosa è che bisognava per forza prendere una posizione. Siamo con Israele o siamo con Hamas? Ciascuno era chiamato a chiedersi “Io da che parte sto?”» ci ha spiegato fra Alberto Pari, segretario della Custodia di Terra Santa, sottolineando come «ora è quello che deve affrontare questo paese, che è così misto… e che non si è mai fermato, fino al 7 ottobre, a pensare alla propria identità. Chi è Israele? Chi sono gli israeliani? Chi sono i nuovi israeliani? Chi è la Palestina? Chi sono i palestinesi?».
Punto secondo: FUTURO E RUOLO DEI CRISTIANI
«Parlare di ricostruire la fiducia, di un futuro sereno qui, dopo quello che è accaduto, non lo si può fare con le parole, con i discorsi, ma con gesti concreti sul territorio che generino un minimo di cambiamento nella vita ordinaria, che facciano capire che è possibile una piega nuova… ma non è semplice». È difficile, ha sottolineato a più riprese il Cardinal Pizzaballa, e assieme a lui tutti quelli che abbiamo incontrato, capire come stia evolvendo la situazione o anche solo a che punto sia il conflitto e verso dove si stia andando come società e come visione politica.
«A volte penso al futuro dei bambini e dei giovani. Hanno visto molte cose terribili» ci ha confidato suor Giovanna di Casa Betania. «Penso che dopo la guerra ci sia molto lavoro da fare qui. Soprattutto le persone che lavorano come psicologi e che possono aiutare a rielaborare per sopravvivere a queste brutte esperienze. E da parte della Chiesa per parlare di perdono. Personalmente penso che sia molto difficile, con queste persone ferite e penso che ci sarà da fare un lungo lavoro, poco alla volta, perché si possa parlare di perdono».
Sul ruolo istituzionale della Chiesa come normalizzatore e garante della bontà del dialogo tra le comunità religiose, la prospettiva sembra abbastanza chiara al Patriarca Pizzaballa: «In questo momento ebrei e musulmani non si possono incontrare perché Ebraismo e Islam sono comunità religiose, ma anche politiche». In questo stallo la compresenza cristiana aiuta a neutralizzare o comunque rendere meno evidente l’aspetto politico degli incontri tra esponenti religiosi. I cristiani in Terra Santa non sono considerati ostili, non hanno alcun potere politico e quindi sono una presenza che lascia spazio al dialogo. È un aspetto interessante, che dice qualcosa di quello che dovrà essere la vocazione dei cristiani di Terra Santa per i prossimi anni.
Punto terzo: UN NUOVO SIGNIFICATO PER IL PELLEGRINAGGIO
L’impatto del conflitto sui pellegrinaggi e il turismo in generale ha reso la Terra Santa sempre più povera. Tanti i cristiani e non solo che lavoravano a vario titolo nel turismo: dagli alberghi, alla ristorazione, ai souvenir ai trasporti… non hanno più lavoro. Anche le Istituzioni religiose potevano portare avanti le attività sociali e nel campo dell’istruzione e del terzo settore grazie alle offerte dei pellegrini… I cristiani e le comunità si stanno fortemente impoverendo.
Ma ciò che ci è apparso chiaro è che non hanno solo bisogno che i pellegrinaggi riprendano per sopravvivere. Hanno bisogno di essere visiti, della nostra empatia, del comprendere che la loro sorte non ci lascia indifferenti.
Chiedendo al Patriarca se è possibile iniziare a tornare con i gruppi la risposta è stata chiara: «Credo che l’aspetto più importante sia l’empatia, cioè mostrare, nei modi possibili, vicinanza. Perché quando uno sta male soffre, si sente solo, si sente abbandonato, ha bisogno di sostegno». La Terra Santa, dopo il 7 ottobre, non è più quella di prima e anche il modo di attraversarla, come pellegrini, ci richiede di fare un passo in là, un passo verso i cuori feriti delle comunità cristiane locali. Hanno bisogno di essere ascoltati, di essere visti dalla Chiesa Universale, di essere sostenuti in modo strutturale, creativo e continuativo. Perché non pensare a contattare prima del viaggio un parroco per chiedergli di cosa ha bisogno e per organizzare una messa con i fedeli e una testimonianza? Possono nascere amicizie e rapporti portati avanti negli anni. “Adotta una parrocchia palestinese” potrebbe essere una campagna da promuovere.
Incontrando il parroco di Zababdeh, ad esempio, abbiamo raccolto il suo desiderio di poter far uscire dalla Palestina i suoi gruppi scout per venire in Italia e poter vivere anche loro il Giubileo. Abuna Elias Tabban, presentando questo desiderio, ci ha fatto comprendere che anche questa piccola cosa serve: «Si dà una possibilità ai giovani di allargare lo sguardo, che qui è sempre chiuso. Infatti, non possono andare mai da nessuna parte. Può essere un modo per non farli sentire soli».
Papa Francesco in questi mesi non ha mancato di esprimere accorati appelli per un cessate il fuoco e perché si trovi il coraggio di intraprendere un vero processo di Pace in Terra Santa. Ormai è evidente che tale processo sarà impossibile se non si terrà conto delle forme di ingiustizia a cui sono sottoposti costantemente i palestinesi, ai quali appartiene anche la comunità cristiana locale. Pensiamo che se come occidente maturassimo una nuova consapevolezza della nostra responsabilità sul conflitto in atto, anche la comunità internazionale sarebbe più legittimata ad offrire un contributo più efficace perché siano rispettati i diritti dell’uomo.
Verona, giovedì 8 agosto 2024
La delegazione diocesana:
don Martino Signoretto, don Nicola Agnoli, don Andrea Anselmi, don Gino Zampieri, Feliciana Cortese, Guido Galvanini, Emanuela Compri