Vorremmo adesso e più che mai raccogliere piedi, mani, occhi perché la luce della pace possa filtrare fra le nubi. Perché la luce mette anche in evidenza le ombre: con altro linguaggio tutto il percorso compiuto Sulla luce di fatto lo dice. Arena di Pace fin dal suo inizio – avervi partecipato allora fa parte della biografia ma anche banalmente dell’anagrafe – segnalava la connessione fra giustizia e pace. Lo sapeva fare in maniera magistrale Giulio Battistella, ricordato insieme a Giulio Girardello nella Lettera, con quel modo che è della mitezza biblica, ben diversa dal compromesso. Così mi piace ricordare una sua versione della parabola del Samaritano, pubblicata anche in un Messaggero Cappuccino del 1988: un uomo scendeva dalla montagna alla città ed ebbe un incidente. Un passante, andando in cerca di aiuto, trovò un benefattore che mise a disposizione un’autolettiga e, dal momento che i sinistri si ripetevano, anche un cospicuo aiuto economico. Finché un mattino il solito passante cambiò orario e si rese conto che gli incidenti erano causati dal denso fumo che usciva da una fabbrica: che era niente meno che del benefattore, per il quale le offerte erano briciole, ma che non si sognava neppure di cambiare tipo di produzione. Nella versione che ricordo a memoria c’erano anche nomi abbastanza circostanziati dei luoghi, comunque è passato tanto tempo e la parabola ha sempre il suo valore anche senza i dettagli: i legami fra stili di vita, cura della città – in senso ampio, a intendere tanto queste vie veronesi come tutto il mondo – e pace sono da ricercare in profondità, senza retorica. La bellezza che ne promana è forse un po’ rude, di quelle a cui l’occhio deve abituarsi insieme all’anima, ma certo risplende.
La pratica di educazione reciproca di occhi, animi e lingue è virtù politica: come scrive efficacemente Martha Nussbaum (Rabbia e perdono. La generosità come giustizia) il passaggio che mantiene l’indignazione per l’ingiustizia trasformandola in una parola che costruisce convivenza senza violenza, aprendo a nuove possibilità, è quello che nella tragedia greca vede le Furie (le Erinni) trasformarsi in Gentili straniere residenti (le Eumenidi), che parlano con magnanimità.
Come sappiamo ma sempre dobbiamo imparare, ogni vita conta, non esistono scarti, non danni collaterali. Oltre i singoli fatti, ci sono sistemi che chiedono di essere portati a parola, cambiati, convertiti. Lo proclamiamo in ogni liturgia, lo attendiamo nel Natale che, non offuscato dalle luci più diverse, splende nella mangiatoia perché “non c’era posto nella città”, lo celebriamo nella Pasqua. Ma abbiamo bisogno di impararlo ancora, abbiamo bisogno che le nostre Eucarestie siano innervate dalla storia, da ogni vita che Dio, come una madre, dice Isaia, tatua nella propria carne.
Anche in memoria dunque di Moussa Diarra, riporto un’altra parabola veronese, questa effettivamente accaduta, riferita da Marco Campedelli, che sa intrecciarla (Racconti per la vita) ancora col Samaritano e con la deposizione dalla Croce. Nel 2012 Daniel Atomi, nato in Romania, muore sul Liston, da solo. Anche la sua è una storia di patimenti e peregrinazioni, che sembra concludersi nella cronaca distratta. Viene invece fatto almeno un funerale degno e mentre il celebrante accompagna il feretro, da solo nell’ultimo tratto, si avvicina una donna anziana e chiede informazioni. Ricevutele, segue la bara anche lei, dicendo in dialetto: «Vengo anche io. Sono sua madre».