Ai presbiteri e ai diaconi della Diocesi di Verona
Cari presbiteri e cari diaconi,
vi scrivo nel giorno in cui compio 34 anni da prete. E ripenso a quel caldo pomeriggio di agosto quando il vescovo impose le sue mani su di me. Al termine, prendendo la parola, me ne uscii dicendo: “Chissà come andrà a finire!”. La battuta suscitò qualche ilarità e non poche preoccupazioni. Ma, a distanza di anni, mi pare che il suo senso non fosse che doveva necessariamente cambiare la scelta, ma che la scelta sicuramente ci cambia e ci porta dove non avremmo mai pensato.
In effetti, c’è una distanza obiettiva tra quello che abbiamo immaginato in seminario e quel che poi è accaduto. Del resto, solo quando il pastore è a contatto con quelli ai quali è mandato, sperimenta chi è. Prima non lo sa. Qualche volta, la sensazione è che siamo diventanti “invisibili” agli occhi dei nostri contemporanei. Che strano destino: noi chiamati a dar corpo all’Invisibile rischiamo di diventare invisibili. Quel che un tempo era pregiudizio o, addirittura, avversione si dissolve in una specie di silenziosa indifferenza. Coi più giovani la cosa è più evidente. Non siamo contestati. Semplicemente ignorati. Ma non è forse così anche per i loro genitori, snobbati ed evitati, ma nel profondo attesi ed osservati?
Paradossalmente, questa condizione che qualche volta ci intristisce, può essere letta in dissolvenza come un’opportunità. Perché ci riconduce a quel che siamo: ‘segni’ poveri e spesso inadeguati che non debbono attrarre su di sé l’attenzione, ma fungere da indice puntato verso l’Alto. Per realizzare questo ci vuole un pizzico di umiltà, un poco di coraggio, e, soprattutto, una dose massiccia di pazienza. Anzitutto l’umiltà. Il sapersi “amici” di Cristo ci lega sempre di più a Lui, non senza lotte, fatiche, cadute e riprese. L’umiltà benintesa si costruisce sulle sorprese belle o brutte della vita. Poi ci vuole il coraggio che non si esaurisce rispetto alle tante smentite che il ministero riserva, ma conserva il buon umore che rende avvertiti delle attese autentiche di tanti che da noi aspettano solo un cenno. E, da ultimo, c’è bisogno di pazienza che è la metodologia più divina che esista. Per convincersene basta ripensare alla Sua pazienza verso ciascuno di noi. Per diventare tutti più rispettosi dei tempi di crescita degli altri, senza pretendere infantilmente “tutto e subito”.
“At-tendere” senza voler ammirare le nostre “costruzioni” è ciò che ci aspetta. Anche perché è molto difficile capire dove finisce lo zelo per il Regno e dove comincia… l’amor proprio. Visto così il dono del ministero più che una meta già bella e confezionata appare come una promessa divina che ha bisogno di esprimersi in un’esistenza tutta intera. Allora ci sorprenderemo alla fine della nostra giornata lavorativa a ripetere anche noi: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,5).
Domenico
Rieti, 6 agosto 2022