“Si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”.
L’evangelista Luca spiega con queste parole l’effetto che fa la spiegazione delle Scritture e il dono del Pane spezzato da parte del Risorto a quelli che comunemente chiamiamo discepoli di Emmaus: Cleopa e un amico o, secondo altri, la moglie. Nel quadro di Rembrandt che ci accompagna si nota proprio il particolare di questi occhi che si spalancano, in un modo quasi innaturale. Quello che emerge è anche una luce del tutto nuova in una situazione dai toni bui.
Al centro di tutto si trova una tavola. È anzitutto la tavola dell’Ultima Cena, dove si fa memoria del bene che non finisce. È anche la tavola del dialogo tra Gesù e la donna siro-fenicia: immagine di un pane per tutti i popoli, che rivela l’abbondanza delle briciole solo quando viene spezzato e condiviso. È inoltre la tavola di casa nostra quando spegniamo la televisione, riponiamo i cellulari in camera e interrompiamo il pensiero fisso sul lavoro, sul denaro, sulle cose da fare. È poi la tavola povera delle periferie del mondo, dove la sobrietà non è il gesto volontaristico di chi ha tutto e può farne a meno per un po’, ma una condizione di miseria da significare in altro modo.
In questo intreccio, il digiuno quaresimale non è mera rinuncia e si lega a progetti concreti di solidarietà. Come si legge nel libro del profeta Isaia, il digiuno che Dio vuole non è la scelta di ipocriti che si perdono nelle formalità rituali e poi continuano a farsi la guerra e a macchiarsi di ingiustizie. Piuttosto, è il digiuno che scioglie le catene inique, che libera le vite oppresse, che divide il pane con chi ha fame, che ospita in casa sua chi non ha un tetto sulla testa, che veste chi va in giro nudo.
Allora la preghiera non sarà misticismo consolatorio e disincarnato, ma ricerca di energia per la cura del mondo. La preghiera autentica scende nelle strade della vita quotidiana, entra nelle case, si siede accanto alle vite, a quelle sofferenti ma anche a quelle che ridono di gioia.
Come fa il lievito nella pasta, questo tempo quaresimale fermenta silenziosamente nella nostra stessa vita, nelle nostre comunità di fratelli e sorelle in Cristo, ma anche nelle nostre città piene di contraddizioni e di chiusure. È lì che dovremmo essere «sale della terra» e scioglierci scomparendo nell’umiltà, per restituire sapore alla creazione tutta. Ciò non significa restare all’interno dei piccoli giardini di casa nostra. Non per caso, le testimonianze missionarie attraversano questo testo come un fiume carsico che scolpisce il terreno anche quando non si vede, ricordandoci che la prossimità evangelica si incarna nelle periferie del mondo, negli incontri quotidiani con gente che non ci somiglia, nel servizio alle vite emarginate, umiliate, rese ultime. La lavanda dei piedi ha un significato eucaristico, non dovremmo mai dimenticarlo.
Il cammino verso la Pasqua si configura così come un esercizio di cura della fede soggettiva e comunitaria, per una giustizia che si incarna nelle scelte quotidiane e un’ospitalità che diventa stile di vita. Da una fede così intesa e vissuta, potranno nascere quei luoghi di trasformazione e di speranza che il Dio di Gesù Cristo sogna da sempre per questo mondo dove il bene è sparso in mezzo alle fragilità.
Suggestivamente il cammino quaresimale si compie nella Veglia pasquale: quando siamo tutti avvolti dal buio, ma una luce passo dopo passo avanza; e a partire dal Cero tutta la chiesa e tutta l’assemblea si illuminano e gli occhi risplendono pieni di luce.
