LA CENA IN EMMAUS, REMBRANDT, 1628/29, MUSEO JACQUEMART ANDRÉ, PARIGI
«Un momento molto particolare della storia dell’evoluzione sul nostro pianeta è stato il Cambriano inferiore. Siamo 542 milioni di anni or sono, ed è il momento in cui l’evoluzione biologica sul nostro pianeta inventa gli occhi. Per la prima volta, ci sono animali che vedono il mondo. Prima, nessuno vedeva nulla. Non esisteva il “vedere”. Senza occhi, non si “vede”.»
Così si legge nella Lettera Pastorale “Sulla luce” del Vescovo Domenico Pompili a proposito della prima percezione della luce da parte di un essere vivente. Così accade analogamente, potremmo dire, per i discepoli di Emmaus, quando, come afferma l’evangelista Luca “Si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”. È proprio questa esperienza del riconoscimento del Risorto, che il grande pittore Rembrandt ha voluto interpretare col suo dipinto. Questo soggetto deve aver toccato il suo cuore di artista e di credente perché è stato da lui rappresentato almeno una decina di volte, con soluzioni compositive diverse. Dobbiamo ricordare che questo tipo di opere nella maggior parte dei casi non erano destinate a delle chiese, ma venivano richieste da famiglie facoltose che desideravano avere nella propria casa un quadro di soggetto religioso per la devozione privata, in particolare nelle sale da pranzo. Si tratta dunque di una creazione che evocava l’orazione del “Benedicite“, con cui si inauguravano i pasti, ringraziando il Signore per i doni ricevuti. Le parole della benedizione erano queste: “Ad coenam vitae eternae perducat nos Rex eternae gloriae”.
La formula dunque evocava l’idea di un cammino da compiere su questa terra fino a giungere alla meta dell’incontro col Signore, per sedere alla sua mensa del Regno dei Cieli. Si capisce bene dunque il riferimento al testo di Emmaus (cfr. Luca 24, 13-35), in cui la narrazione lucana segue l’itinerario dei due discepoli in compagnia dello sconosciuto pellegrino, e culmina con la scena della frazione del Pane.
Nell’accostare questo piccolo dipinto, riconosciamo che “il carattere fondamentale dell’opera di Rembrandt è il luminismo: in lui, la luce è la protagonista indiscussa, determina la dinamica della costruzione del quadro, penetra nei ritratti rivelandone l’interiorità. Capacità tecniche, cultura figurativa e penetrazione psicologica ne fecero, nella stagione fiorente dell’arte olandese, uno dei maggiori artisti di tutti i tempi”(Maria Gloria Riva)
Il pregio di quest’opera infatti è dato proprio dallo straordinario effetto di illuminazione che sprigiona dalla tela, un esempio magistrale di chiaroscuro: al momento di spezzare il pane, Gesù si erige con posa solenne ed arretra leggermente dalla mensa. Rembrandt lo raffigura di profilo, e ne mette in evidenza la silhouette nel contrasto con la superficie fortemente illuminata del muro che sta dietro le sue spalle.
“In questo piccolo quadro la rivelazione è visivamente espressa dall’aspetto di apparizione fantomatica di Cristo che si staglia come ombra cinese su una luce intensa e dallo stupore dei pellegrini. Si tratta di un vero colpo di scena, dove la rivelazione del divino ha qualcosa che incute spavento” (Manuel Jover)
È proprio per questo che uno dei due discepoli si scosta stupefatto e colto all’improvviso, mentre l’altro lo si scorge a malapena sul davanti, nell’atto di prostrarsi in segno riconoscimento del Signore con un gesto che fa cadere la sedia su cui era seduto fino ad un attimo prima.
Sullo sfondo l’artista ha inserito la figura di una donna che non partecipa all’evento: la presenza di qualche personaggio “presente ma assente” si ritrova di frequente nei dipinti dedicati alla “Cena in Emmaus”, come esortazione a non restare estranei all’incontro con Cristo. Queste figure infatti, non avendo fatto il cammino e non avendo ascoltato la Parola che faceva ardere il cuore, non avrebbero potuto riconoscere il Signore. Si tratta dunque di un monito per noi cristiani di ogni tempo, che rischiamo di restare distanti, pur nella vicinanza fisica anche “del primo banco”, con una presenza solo formale/ritualistica che non tocca la vita.
Proprio al centro della composizione Rembrandt, con un vero tocco da maestro, ha collocato due occhi spalancati per cogliere l’attimo in cui l’occhio della fede si illumina e per renderne partecipe chi si pone davanti all’opera; ricordiamo che il testo del Vangelo puntualizza il fatto che gli occhi dei due discepoli, Cleopa e l’altro animo compagno, all’inizio erano chiusi, “incapaci di riconoscerlo”, ora invece si aprono. Questi occhi sono anche quelli dello stesso Rembrandt, che progressivamente introduce nella sua pittura un nuovo sguardo, un cambiamento di prospettiva, come si può notare in questa opera che costituisce una forma di visione, di rivelazione che rimane non solo negli occhi, ma nel cuore dei credenti anche dopo che il Risorto “sparì dalla loro vista”.
I critici annotano che questo dipinto di Rembrandt non è stato rifinito con tocchi di pennello minuziosi e attenti ai dettagli, forse proprio per esaltare l’effetto della visione. Sappiamo che Rembrandt si dedicò ripetutamente a soggetti desunti dalle Scritture con una particolare attenzione ai testi e con una prospettiva attualizzante, potremmo dire omiletica, di derivazione caravaggesca. La stessa ambientazione della “Cena in Emmaus” vuole introdurci all’interno di una locanda del Seicento, con le stoviglie dell’epoca sulla tavola, e con l’attaccapanni, cui stanno appesi una sacca ed un otre da viandante.
“Lo straordinario mondo figurato di Rembrandt, specialmente quello ispirato dalla storia biblica, è pervaso da una “pietas” profonda, di concreta partecipazione ed identificazione con le vicende umane rievocate. Gli uomini e le scene di Rembrandt sono i protagonisti di un quotidiano che è sacro; animati come sono da una religiosità vitale, dove è estraneo il misticismo e dove vengono invece esaltati i valori di interiorità e di esistenza, quel senso appunto di energia religiosa, che segnala relazione tra l’umano ed il divino” (Gianni C. Sciolla)
Tornando al tema centrale della luce, non possiamo dimenticare che, «Senza la luce non vedrei il volto della persona che amo, è grazie alla luce che la vedo, e per questo sono grato alla luce, questa è per me la luce». (Domenico Pompili, Sulla Luce).
Questa luce è quella della Parola che ci permette di riconoscere anche nei gesti più semplici e familiari la presenza del Signore che ancora oggi ci invita con lui a spezzare il pane, cioè a condividere la nostra stessa vita nel segno della gratuità e della fraternità perché … “la sostanza di cui siamo fatti, la nostra natura, è la relazione di scambio continua fra noi e il mondo intorno a noi … È la luce che ci fa, in quanto esseri di relazione. Siamo figli della luce”. Per imparare a riconoscerci…
Don Antonio Scattolini