“Verona è una città d’arte: basti pensare all’incanto di San Zeno, alla forma ovale dell’Arena di cui parla anche Romano Guardini, allo squarcio di ponte Pietra sull’Adige. E poi tanti scrigni di bellezza in tutta la provincia. L’arte delle nostre chiese è frutto di un inesauribile dialogo tra fede e cultura ed è testimonianza di una fede in grado di tradursi in architettura di bellezza” (Domenico Pompili, Sulla Luce, 3.1.1).
Tra i tanti e significativi passaggi della lettera del vescovo Domenico Sulla luce c’è anche questo riferimento alla luminosità del patrimonio della nostra bellezza artistica, che, nelle intenzioni del nostro pastore, assume il valore di una risorsa e provocazione perché le nostre comunità diventino belle, capaci di relazioni luminose, chiare, trasparenti. Per parte mia mi limito soltanto a segnalare la gioia e la bellezza di poter gustare gli effetti di illuminazione che ci riservano le nostre chiese. E poiché nella lettera si menziona la stupenda basilica di San Zeno, vorrei attirare l’attenzione sul fascino inesprimibile generato dal trovarsi immersi nel bagno di luce che proviene dal rosone romanico, oppure, al mattino, dalle grandi finestre dell’abside gotica. In numerose occasioni, personalmente o durante le molteplici visite con gruppi, in stagioni e orari diversi, ho contemplato questo divino spettacolo. Tanti anni fa ho anche passato una notte intera in basilica nel buio, attendendo l’alba, e all’accendersi dei primi bagliori del sole nascente, vi assicuro che l’epifania è davvero eccezionale dal punto di vista estetico e spirituale. Bisogna provare per credere! Non dobbiamo dimenticare che l’esperienza che l’uomo medievale aveva della luce è infinitamente lontana da quella che abbiamo noi moderni. Fino all’invenzione dell’elettricità infatti, la gente percepiva il senso della luce limitatamente al corso diurno del sole: noi, quando comincia a far buio accendiamo la luce, anticamente invece, col crepuscolo, le persone si ritiravano nelle loro abitazioni perché cominciava il dominio della notte, il regno delle tenebre, che fin dalle origini dell’umanità aveva dato origine ad una serie di paure e di archetipi (che noi possiamo forse ricordare presenti nella nostra prima infanzia quando avevamo paura di restare da soli in una stanza buia). L’oscurità poteva sempre nascondere la minaccia di un animale, l’agguato di un nemico, la presenza di un fantasma o di un demonio. L’architettura romanica ma poi soprattutto quella gotica, sembrano esaltare all’estremo questo infinito desiderio di luce iscritto nel cuore dell’uomo antico, costretto a confrontarsi ogni giorno con l’esperienza del limite crepuscolare. La Chiesa ha conservato le vestigia di questo stato d’animo umano nella Liturgia delle Ore, specialmente nella preghiera della Compieta in cui ricorrono espressioni di invocazione contro le minacce notturne. Viceversa, i testi della preghiera delle Lodi mattutine ridondano di espressioni di gioia per il ritorno della luce del sole, sorgente di vita. In una lettura simbolica dell’alba, questa viene intesa come una “risurrezione quotidiana” che evoca il Mistero Pasquale di Cristo, Sole di Giustizia. Ce lo ricorda anche la lettera del vescovo Domenico (cfr. Sulla luce 2.5.3). La luce, dunque, nello sguardo caratteristico dell’uomo antico, veniva recepita per il suo senso simbolico: questo sguardo noi l’abbiamo perduto a vantaggio di quello scientifico… e si dice che solo i bambini e i poeti (oppure i fisici “ispirati”, come Carlo Rovelli) sappiano custodirlo nel nostro mondo moderno occidentale. La mistica della luce si radica in questo orizzonte così lontano dal nostro.